di trama
Nel
1976, uno Steno in stato di grazia raccolse intorno al suo tavolo un
gruppo di straordinari attori: in quella occasione, Enrico Montesano,
Gigi Proietti, Francesco De Rosa e Mario Carotenuto seppero dar vita
insieme ad una delle farse più indovinate nella commedia italiana degli
anni ’70. Pur se ambientato nel settore specifico degli ippodromi e
dei suoi disperati scommettitori, “Febbre da cavallo” seppe
improvvisare con grande sicurezza una caricatura, oggi quasi struggente,
dei grandi vizi e delle piccole virtù alberganti nell’ambiente
popolare romano, che dopo 26 anni continua a celebrarlo come un
esclusivo oggetto di culto, peculiare della sua identità.
Come
il suo predecessore, Febbre da cavallo - La mandrakata racconta
la storia di tre personaggi afflitti da una passione patologica per le
corse dei cavalli, su cui continuano a scommettere con grande
determinazione ma ottenendo gli stessi, scarsi risultati. Mandrake, però,
è rimasto il solo della comitiva, mentre il posto del “Pomata” e di
Felice è stato occupato da “Micione” e “L’Ingegnere”, due
sciagurati come i loro predecessori. Insieme, organizzano raggiri
macchinosi ai danni di vittime prescelte od occasionali, mai con cattive
intenzioni, ma solo per ottenere il minimo necessario da riversare nelle
casse dell’Ippodromo Tor di Valle, l’unica meta delle loro
illusioni. Ovviamente, non sempre possono cavarsela da soli: vengono così
in loro soccorso dapprima Aurelia, un’attricetta squattrinata, poi il
redivivo “Pomata”, tornato d’improvviso a Roma dopo un lungo
viaggio. Il loro obiettivo è tentare un’altra “mandrakata”,
sabotando una corsa dopo aver truffato un disgraziato ragioniere
napoletano.
I
fratelli Vanzina, una volta tanto, ammorbidiscono
i toni della comicità, prendendo le distanze dai loro
registri abituali per offrire un dono alla
memoria del padre, lo stesso Steno. Il risultato, purtroppo,
sembra un omaggio di poche righe, distratto e
comprensibilmente imbarazzato dal confronto che non può
nascondere il suo clima di disagio e malinconia, testimoniato
soprattutto dall’aver ceduto alla debolezza di riciclare alcune
celebri burle dalla commedia originale. Ciò che maggiormente pesa su
questo clima è la sgradita sorpresa di un Gigi
Proietti disorientato e distante dai suoi irresistibili
esercizi di articolazione dei tempi comici, che il monologo di chiusura
del precursore esaltava togliendo il fiato. A ben guardarlo, Proietti
appare assopito sui ritmi dilatati delle sue fiction televisive, a cui,
onestamente, sembra adattarsi anche il resto del cast.
Francesco
Russo
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